giovedì 6 marzo 2014

È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore

Premessa storica quasi inutile

"... que les futurités littéraires se mettent à l'œuvre. Un art nouveau, quintessencié, plus impalpable encore sortira de ce gâchis chaotique."

Così la rivista "Le Decadent" nel 1886 presenta la sua idea di rivoluzione culturale, nell'ottica di un totale sovvertimento della cultura borghese.
Illustri precedenti avevano già minato alla base i modelli culturali egemoni in Europa: nella musica, a Richard Wagner erano bastate le prime 4 battute dell'ouverture dell'opera "Tristan und Isolde"; tra i filosofi Arthur Schopenauer e Søren Kierkegaard avevano messo in crisi l'intero apparato dell'idealismo hegeliano; in letteratura e poesia, basti pensare a Charles Baudelaire, al tardo Flaubert e ad Edgar Allan Poe; nella pittura, dopo il rinnovamento avvenuto con il Realismo, fu la volta degli Impressionisti. Poi vennero Thomas Mann, la Scuola di Vienna, Freud e Jung, e tutto il resto.

La rivista "Le Decadent" uscì regolarmente fino al 1889, ma fu sufficiente questo lasso relativamente breve di tempo per dare l'avvio ad una nuova epoca nella storia della cultura europea (e non), che prese appunto il nome di "Decadentismo". Definizione fumosa ed imprecisa per un movimento che si ramificò durante tutto il XX secolo - con evidenti lasciti anche in avvio del terzo millennio - nelle avanguardie artistiche e letterarie, nelle correnti filosofiche, nella politica, ed almeno a livello teoretico anche nella scienza.

All'interno della biblioteca virtuale online del progetto francese Gallica sono sfogliabili diversi numeri della rivista "Le Decadent".

Non si è capito, ma anche io voglio parlare della grande bellezza

Non avrei mai voluto scrivere nulla sul film "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino. E' un'opera che non ho apprezzato, questione di gusti, sono solito scrivere solo di cose che mi piacciono. Ho aspettato infatti 8 mesi prima di decidermi. Mi soffermerò brevemente solo su alcuni singoli aspetti che hanno catturato la mia attenzione, nell'apparentemente inarrestabile fluire di lodi e critiche al film, iniziato a maggio 2013 (l'esordio non particolarmente felice a Cannes) e culminato in questi giorni con la premiazione dell'Academy. Un polverone mediatico catalizzato da abili mosse commerciali, tra le quali spiccano la prima TV su un canale commerciale in prima serata, ed un controverso spot per un'automobile uscito poche ore dopo l'assegnazione della prestigiosa statuetta, che vede il regista come testimonial.
Provo a partire, nella mia sintetica analisi, dai risultati di una normale ricerca sul web con le parole chiave "La grande bellezza" o "The great beauty", per portare l'attenzione sulla ricorrenza dei termini "decadenza" o "opera decadente" nei titoli di giornali, blog, riviste, usati sia dai sostenitori che dai più aspri detrattori. Da altre parti qualcuno è andato un po' più in là ed ha scomodato "L'educazione sentimentale" di Flaubert. Strani accostamenti, in quanto l'estetismo della direzione della fotografia, le tecniche di ripresa sofisticate e compiaciute, le altisonanti frasi ad effetto della voce fuoricampo, cozzano con quella volontà (forse neanche troppo sincera) di mettere sotto scacco i modelli culturali egemoni nella nostra società. La poetica di Sorrentino, intrappolata nel vezzo stilistico, si perde in un manierismo che può trovare assonanze magari solo con il Decadentismo italiano di D'Annunzio, che dall'europeo prende in prestito solo gli aspetti più superficiali.
Nell'impianto filosofico, il film si muove intorno all'autocommiserazione solipsistica dei personaggi (aride raffigurazioni di una mondanità predestinata al male di vivere), il rifiuto dell'altro da sé ("Altrove c'è l'altrove"), il dannunziano rifugiarsi nel "trucco" di una patinata ed irreale gioventù perduta, l'eccessiva sinteticità nell'introdurre il tema sacro, con il personaggio non compiuto della santa. Insomma, se dobbiamo scomodare Kierkegaard, facciamolo sul serio, ed andiamoci a vedere "Ordet" di Dreyer; "Le luci d'inverno" di Bergman; il citatissimo "La dolce vita" di Fellini, o l'inettitudine sveviana di un altro personaggio "neo-decadente" del cinema dei decenni passati quale era "Le professeur" di Valerio Zurlini.

Pertanto...

Cosa non mi è piaciuto in "La grande bellezza":

1) L'aridità dei personaggi (ad esclusione del protagonista Jep Gambardella, interpretato magistralmente da Toni Servillo)
2) I riferimenti all'immaginario felliniano: cicogne, suore, altalene, nani e ballerine
3) La scena del ballo sul prato inquadrata dall'alto
4) Il cardinale esperto di cucina
5) Gli eccessivi movimenti ed ammiccamenti della macchina da presa
6) L'uso della voce fuoricampo
7) La fotografia di Bigazzi
8) Il montaggio alternato fra la santa che sale le scale ed il flashback: questa è un'integrazione degli ultimi giorni. La lista era già pronta tempo fa, ma lo scorso lunedi ho rivisto al cinema "Il Padrino". Ecco, nella scena del battesimo Coppola ci dà una dimostrazione dell'efficacia narrativa di un vero montaggio alternato.

Cosa mi è piaciuto in "La grande bellezza":

1) La fotografia di Bigazzi
2) La capacità di Sorrentino di costringerti a parlare di lui. Il cinema di Sorrentino desta interesse, è a suo modo popolare in modo non convenzionale, divide e fa parlare di sé. E questo è un merito.
3) La scelta delle musiche, sia nella loro funzione diegetica che in quella extra-diegetica, dove è possibile rintracciare un uso metafisico del commento musicale, in linea con lo stile di Terrence Malick di "The tree of life" e "To the wonder".
4) L'incipit girato al Gianicolo